Per un teatro vivente
Massimo Marino, «Doppiozero».
Procede per tesi, Marco Martinelli, intrecciando una spirale di 101 argomenti rivolti come riflessioni al lettore con un piglio fortemente discorsivo, quasi dialogico. D’altra parte l’idea di teatro (e di società) che traspare da questo scritto è proprio quella di una relazione costante, che abbandoni ogni narcisismo, ogni esibizionismo cui spinge la società dello spettacolo, e vada a esplorare la relazione elementare, essenziale, vivente tra un io e un tu. Per Martinelli non è importante la messa in scena, quanto la messa in vita: il teatro ha senso solo quando è «vivo, vivente, che il cuore gli batte», come luogo «dell’Invisibile, della Rivelazione, dell’Accadimento», luogo, ancora, «del Visibile, del Tangibile, del Corpo, che sente, sensuale». Luogo «dove la gioia balbetta sopra le macerie, dove gli assetati trovano da bere, gli affamati pane per i loro denti, dove i miracoli sono ancora possibili». Luogo di desiderio, di comunione, di rivelazione, di scambio, di affratellamento. Modello di resistenza (o resilienza) per una società sempre più individualistica. Piccola area liberata, zona della ‘buona notizia’, pratica evangelica sia per chi creda nel divino sia per chi confidi solo nell’umano, luogo francescano o di quelle comunità anarchiche che non mettono le bombe, che hanno terrore del terrore. Gli argomenti iniziano tutti con la lettera minuscola, a segnare un flusso discorsivo in continuo sviluppo, in eruzione: «Il teatro come luogo del Necessario e dell’Utile. Come un ago per cucire» (tesi 9) e «il teatro come luogo dell’Inutile, del Gratuito. Gratis et amore dei. Come una preghiera» (tesi 10). Il teatro come luogo dove deve germogliare vita nuova, attraverso l’incontro, attraverso l’invenzione di una comunità sulle macerie devastanti dell’individualismo, del cinismo, dell’isolamento contemporaneo. Il teatro come luogo di ricerca della verità attraverso l’esplorazione degli opposti, per quell’opus alchemicum che è più dell’opera, è un processo per salti, per invenzioni, per folgorazioni e cortocircuiti, capace di svelare nuova vita e nuova bellezza dai rottami dei materiali più vili.
A Martinelli interessa la polis, un teatro della polis, da inventare. Un teatro che sia coro, materia sacra, viva, nell’epoca dell’assenza, della mancanza, della distanza mediatica, della disgregazione di ogni idea stessa di comunità. Il teatro si fa luogo attraverso l’incontro, in scena, fuori della scena, tra artisti e spettatori (senza trascurare gli altri mestieri del teatro), contrapponendosi ai ‘non luoghi’ della nostra società. È incontro, scavo, invenzione. È luogo di grazia, dove trovare una grazia, non per meriti acquisiti e neppure per testarda applicazione, ma per improvvisa conquista (il mistero dell’arte!). E qui rifulge un altro lato teologico, rigorista nella sua gioiosità, di una teologia che si allontana dalla semplice giustificazione attraverso le opere. Scrive Martinelli: «Parlo del teatro come luogo del lampo non trasmissibile. Bastasse faticare! E invece no: tutto il tuo faticare non sarà mai sufficiente a raggiungere la grazia». Qui grazia è giocato, credo, in modo apertamente ambiguo, tra levità e bellezza della forma artistica e illuminazione derivante del favore divino, come coscienza – in una personalità che ha fatto della pedagogia uno dei suoi principali strumenti di innovazione – del mistero del caso, dell’illuminazione, della creazione (e della vita). D’altra parte Martinelli intesse questa sua riflessione teatrale continuamente di spunti che si misurano con una dimensione apertamente, largamente, religiosa della vita: dall’idea di legame a quella di spirale, a quella professione del coraggio di sostenere la bontà, senza paura di essere accusati di buonismo.
L’idea della spirale è fondante, perché sostanzia le riflessioni della carne dell’esperienza. Si parte dall’Io, non isolato, che diventa due e poi molti, allargandosi in cerchi sempre più ampi. In questa figurazione parla la storia stessa, concreta, delle Albe: iniziata quando ancora il gruppo non aveva questo nome dalla fuga d’amore e matrimonio dei ventenni Marco Martinelli ed Ermanna Montanari; nutrita dal fuoco del fare teatro, senza scuole, eleggendosi i propri maestri in un cammino di pratiche personali. I due diventano Albe nel 1983 con Luigi Dadina e Marcella Nonni, per allargarsi poi ad altri compagni di arte, i senegalesi della Romagna Africana e altri meticciati, gli adolescenti della non-scuola, una pedagogia intinta di vita contro ogni pedanteria. Alcuni di quegli adolescenti poi vengono inseriti in compagnia, e la non-scuola germina volute sempre più larghe con l’invenzione corale con giovani e giovanissimi in molti luoghi di Italia e del mondo, a Scampia come a Chicago, in Senegal come a Milano, fino a Eresia della felicità, cori di centinaia di ragazzi alle prese con i versi dell’utopia rivoluzionaria di Majakovskij da Santarcangelo 2011 a Milano 2015.
Questo è il teatro per Martinelli: messa in vita, che si sostanzia di pratiche attraversate in un errare teatrale continuo (nei due sensi di viaggiare e sbagliare e riassestare il campo), con riferimenti a maestri di utopia come il teatro greco, quello comunitario medievale, quello della rivoluzione russa, quello dei tanti, diversi maestri (Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Arianne Mnouchkine, Leo de Berardinis...). Teatro come spirali di vita. Come domande alla società, perché se essa ritiene il teatro un intrattenimento in via di estinzione è solo perché il teatro stesso non sa dire nessuna parola capace di parlare alla nostra società, non ha (generalmente) più un linguaggio, un interlocutore, una capacità di scavare e rovesciare il reale.
Il punto di partenza però è inscritto dentro di noi, in un vibrare che nasce dal corpo, un qualcosa che chiede di germogliare, di farsi luogo. E questo libretto è anche la storia di un artista che con i suoi compagni ha lavorato per inventare il proprio teatro, basandosi sempre sulla curiosità per il mondo e sulla ricerca dell’altro, alimentando la concorrenza, ossia dando spazio ad altri teatranti, anche con visioni molto diverse. Quando il comune di Ravenna agli inizi degli anni Novanta chiamò le Albe a gestire i teatri della città sotto la sigla Ravenna Teatro, loro trasformarono la programmazione in un’azione duratura di coltura teatrale, con la consapevolezza che vita e arte non si possono scindere. E che bisogna lottare, contro narcisismo e corruzione, in una visione che non guarda al successo ma alla capacità di creare legami, di trasmettere e di lasciarsi sorprendere dalle nuove energie prorompenti. E così il libello teatrale diventa una lettura per tutti quelli che chiedono ai nostri tempi il rigore sfavillante di un’utopia imbevuta di concretezza, di una ricerca profonda di sé che diventa apertura, avventura sociale, invenzione comunitaria.